Un audit anche per l’Italia
La formazione del debito pubblico italiano è una biografia del paese, evidenzia i meccanismi di un funzionamento specifico del capitalismo in cui i benefici fiscali per le grandi imprese e i più ricchi si sposano all’utilizzo della macchina pubblica per una gestione centralizzata e classista della spesa sociale. Discutere del suo annullamento, o congelamento o default negoziato come hanno proposto diversi interventi del manifesto e come propongono alcune campagne in corso (Campagna per il congelamento del debito o Rivolta il debito) è del tutto pertinente. Alcuni di questi interventi, tra tutti Guido Viale, hanno fatto riferimento alla possibilità di un Audit pubblico sul debito per definire la parte di debito legittimo, da pagare, e quella illegittima da annullare. E’ attorno a questa proposta che una campagna sul debito può trovare una ampia unità e permettere al dibattito di fare significativi passi in avanti.
La galleria fotografica della Prima Repubblica che costella l’ascesa delle percentuali di debito sul Pil supporta l’interpretazione secondo la quale il debito è frutto di una scellerata politica clientelare propria del “regime” democristiano. Ovviamente c’è del vero in questa affermazione. Ma c’è dell’altro. La spesa sociale in rapporto al Pil, infatti, è aumentata in linea con le entrate fiscali tra il 1980 e il 1990 e poi addirittura si è ridotta (dal governo Amato del ’92 a oggi, le manovre finanziarie hanno operato tagli per circa 500 miliardi di euro). Negli stessi anni abbiamo assistito invece a una miriade di finanziamenti a pioggia, di incentivi, defiscalizzazioni rivolte alle imprese in un ginepraio di intrecci e conflitti di interesse difficile da definire con precisione. Marco Cobianchi autore del saggio “Mani bucate”, ha calcolato in 30-40 miliardi di euro l’anno i trasferimenti “a pioggia” dello Stato alle imprese: la metà di quanto si spende per interessi. Poi c’è la questione fiscale. Secondo Eurostat, dal 2000 al 2010 la pressione fiscale dell’Europa a 27 è passata dal 44,7 al 37,1 per cento con una riduzione del 7,6 per cento. Le imposte sui redditi delle società sono passate dal 31,9 al 23,2 con una riduzione dell’8,7 per cento. In Italia la pressione fiscale sui redditi delle società è passata dal 41,3 per cento al 31,4 con una riduzione del 9,9 per cento. Da queste politiche deriva un allarme che giustifica politiche di austerità durissime e annuncia un default di fatto, almeno sul piano sociale.
E’ giusto quindi chiedere l’annullamento della parte illegittima del debito, cioè quello realizzato per sostenere i profitti, per garantire la speculazione delle grandi banche e per sorreggere un’economia capitalistica in crisi di sbocchi, e quindi di margini di profitto, e bisognosa di una bolla finanziaria in grado di garantire l’attività. Come è giusto contestare la legittimità di un debito contratto per applicare politiche sociali ingiuste, in violazione dei diritti economici, sociali, culturali e civili dei popoli. E’ quanto ha sostenuto per anni il Comitato per l’annullamento del debito del terzo mondo (Cadtm) che ormai si occupa dei debiti del “nord del mondo” e le cui idee sono state pubblicate nel volume “Debitocrazia” in uscita con Alegre. Argomenti analoghi utilizza François Chesnais nel suo “I debiti illegittimi” pubblicato da DeriveApprodi.
Si tratta del primo passo necessario a costituire un rapporto di forza adeguato per raffreddare la stessa tensione finanziaria. La moratoria sul debito esige un Audit, fondamentale per radiografare il debito e per il quale è essenziale la partecipazione di cittadini e cittadine, dei movimenti, delle associazioni, dei sindacati. Ovviamente, un simile obiettivo richiede una forte mobilitazione sociale perché non esiste, oggi, un governo in grado di accettare una simile proposta. Allo stesso tempo, questa proposta può aiutare a selezionare un governo possibile del paese: chi davvero abbia a cuore il futuro della popolazione, dei lavoratori e delle lavoratrici, dei giovani e dei pensionati, dei vari strati sociali colpiti dalla crisi non dovrebbe che sposare una simile tesi e voltare le spalle agli interessi delle grandi banche e delle società finanziarie.
La moratoria unilaterale servirebbe anche a rinegoziare tassi di interesse e tempi di rimborso per il debito considerato legittimo o legale considerando che la quota del bilancio statale da consacrare a tale spesa non dovrebbe superare una percentuale accettabile: ad esempio il 5 per cento delle entrate, come propone il Cadtm, mentre a fine 2010, in Italia, quel rapporto era del 9,7 per cento.
Tra le obiezioni fondamentali alla moratoria e al congelamento degli interessi ve ne sono alcune che provengono da sinistra.
- il “default” sarebbe pagato dalla popolazione e da lavoratori e pensionati. Il problema sarebbe però ovviato da un atto, sovrano, di moratoria – e non di “default” – da cui sarebbero esplicitamente esclusi quei settori da proteggere proprio in virtù degli interessi della collettività.
- Dopo la moratoria uno Stato farebbe una fatica immensa a finanziarsi di nuovo sui mercati interni e internazionali: nessuno gli farebbe più credito. I casi di Argentina o Ecuador – in cui si è realizzato un vero Audit pubblico con ampi benefici per quello Stato - mostrano il contrario, dipende dalle situazioni. In ogni caso, per l’Italia, si tratta di riequilibrare il ricorso al prestito “interno” facendo leva su una ricchezza finanziaria netta altissima (circa 3700 miliardi di euro).
- Un default significa uscire dall’euro e scontrarsi con una forte svalutazione con il crollo del potere di acquisto dei salari. L’andamento dei salari degli ultimi dieci anni, quelli in cui è vigore l’euro, non autorizza a parlare di mantenimento del potere di acquisto. L’Europa può imboccare una strada diversa, quella dell’Europa Sociale che rifiuti la dittatura delle banche.
L’appello per un Audit pubblico in Francia è stata lanciata da una serie di forze sociali e intellettuali ( pubblicato in italiano su www.rivoltaildebito.org) e ha già superato le 40 mila adesioni. Tra i promotori forze sindacali come la Cgt, l’Union syndacal Solidaires, Attac, il Cadtm, economisti come François Chesnais e Michel Husson, filosofi come Etienne Balibar, altermondialisti come Susan George. Forse si potrebbe fare anche qui in Italia.
(da il manifesto)