Come si è formato
Nel corso degli anni 70 e 80 la spesa pubblica italiana è stata inferiore tra i 5 e i 10 punti del Pil rispetto a Francia e Germania, ma la pressione fiscale è ancora inferiore, tra i 10 e i 15 punti! All’origine dello specifico debito italiano c’è meno Stato sociale ma molte meno tasse per i ricchi.
Guardiamo ai dati Eurostat: dal 2000 al 2010 la pressione discale dell’Europa a 27 è passata dal 44,7 al 37,1 per cento con una riduzione del 7,6 per cento. Le imposte sui redditi delle società sono passate dal 31,9 al 23,2 con una riduzione dell’8,7 per cento!
Se in Italia la riduzione fiscale non c’è praticamente stata – si tratta solo di -0,3 per cento – in gran parte è dovuto alla dilatazione progressiva di una gigantesca evasione fiscale. In ogni caso le imposte sui redditi da capitale sono passate dal 41,3 al 31,4 per cento cioè circa il 10 per cento in meno! Si consideri che in Grecia tale riduzione è stata di ben il 17 per cento. La principale causa dell’aumento del debito pubblico è quindi la riduzione delle tasse per ricchi e imprese mentre per il lavoro dipendente il fisco è rimasto molto aggressivo.
Dal 2007 ci si è poi messa la crisi economica. Ma la dilatazione dei debiti è stata una precisa scelta delle politiche degli ultimi decenni all’insegna del neoliberismo. Pur dicendosi contro la spesa pubblica le politiche liberiste hanno aumentato il debito. Anche perché la spesa è stata necessaria per sostenere i profitti delle grandi imprese. Propagandando la necessità di garantire i profitti per aumentare gli investimenti, e quindi l’occupazione, quelle politiche hanno prodotto una riduzione drammatica dei salari, dello Stato sociale e una generalizzazione delle privatizzazioni. Secondo l’Ires-Cgil, in dieci anni, dal 2000 al 2010, i salari hanno perso circa 7000 euro del loro potere di acquisto mentre i profitti netti delle maggiori imprese industriali italiane (campione Mediobanca) dal 1995 al 2008 sono cresciuti di circa il 75,4% e, al contempo, dal 1990 a oggi, si registra una crescita dei redditi da capitale (rendite) pari a oltre l’87%. Gli effetti della gestione del debito pubblico si condensano in queste cifre. Non solo, sempre secondo la ricerca della Cgil l’andamento degli investimenti in rapporto ai profitti, negli ultimi trent’anni, è calato del 38,7%. I profitti, cioè, non sono stati reinvestiti nella crescita economica ma nella rendita finanziaria che ha garantito ulteriori profitti grazie agli interessi dei debiti pubblici, agli interessi dei debiti privati dei lavoratori – cresciuti per effetto della riduzione dei salari - alle speculazioni monetarie e dei prodotti derivati, trasformando la finanza globale in un Casinò. Quando il gioco è finito, quando i debiti sono divenuti troppo alti è sopraggiunta la crisi. Ma con la nazionalizzazione delle perdite prodotte dai grandi istituti finanziari il debito privato è stato trasportato nel debito pubblico facendolo pagare a tutti noi. E ora si vogliono applicare politiche di austerità per ridurre un debito pubblico che si è formato nel tempo per foraggiare gli interessi del profitto e non certo per migliorare le condizioni di vita di lavoratori e lavoratrici, di precari e di giovani.