L'Islanda, il debito e la finanza: come è andata veramente
La storia e l'attualità della vicenda islandese, un Paese che ha deciso di non ripagare il debito prodotto dalle banche.Lo scorso 28 gennaio, appena spente le luci del circo di Davos, l’Islanda iniziava la settimana con il piede giusto. Proprio al World Economic Forum, tenutosi la settimana precedente, come da tradizione, nella nota località svizzera, il Presidente Olafur Ragnar Grimsson – definito dall’inviato di Al-Jazeera “l’unica voce di speranza” per un continente in recessione profonda - aveva rilasciato un’intervista al canale satellitare arabo, scatenando un certo interesse ed eco in rete. Il breve intervento, infatti, colpisce per la risposta - retorica ma non troppo - con cui il presidente islandese argomenta le politiche “non ortodosse” del suo Paese: why do we consider banks to be like holy churches? Perché – si chiede Grimsson - consideriamo le banche diverse da altre imprese “tradizionali”, come le compagnie aeree o di telecomunicazioni, e non dovremmo permettere loro di fallire? Perché, soprattutto, dovremmo invece lasciar fallire le persone, introducendo nuove tasse e misure di austerità, e non proprio le banche, che hanno già beneficiato dei proventi di quelle stesse attività rischiose all’origine della crisi? A dare una risposta al Presidente islandese è intervenuta la Corte dell’Efta – European Free Trade Association: organizzazione che riunisce, oltre alla stessa Islanda, Norvegia, Lichtenstein e Svizzera. Proprio l’Efta nel 1994 ha siglato, assieme ai membri dell’allora CEE, un accordo che istituiva l’European Economic Area (EEA): è in virtù di questo trattato che l’Islanda – pur non essendo membro dell’Unione Europea – è sottoposta a gran parte della regolamentazione comunitaria, anche in materia finanziaria. La corte, con sede nel Lussemburgo, era stata chiamata in causa per risolvere un contenzioso (denominato “Icesave”, dal nome di un sito di banking online) apertosi dopo il collasso del sistema finanziario islandese - avvenuto nell’autunno del 2008. Dopo il fallimento della casa madre di Icesave, Landsbanki Íslands - principale istituzione finanziaria islandese da oltre un secolo, incaricata dell’emissione delle banconote fino alla creazione della Banca Centrale nel 1961 - il governo di Reykjavík si era infatti rifiutato di assecondare la richiesta, avanzata dalle autorità britanniche ed olandesi, di coprire le perdite realizzate dalle filiali olandesi e britanniche della banca secondo i nuovi onerosi parametri stabiliti dalla nuova direttiva comunitaria di assicurazione dei depositi. Entrata in vigore nel 2009 nel processo di rinnovamento della regolamentazione finanziaria europea seguito alla crisi, la nuova norma prevede, come sintetizza il blog phastidio , che in caso di default i depositanti di una banca vengano indennizzati fino all’importo massimo di 100.000 euro. Come precisa il New York Times, in realtà le autorità islandesi avevano tentato per ben due volte di ottemperare agli obblighi previsti. Ma, a seguito del rifiuto da parte dello stesso Grimsson di ratificare quanto approvato dal Parlamento islandese, per ben due volte gli elettori islandesi, chiamati a confermare le misure con appositi referendum, hanno respinto la proposta. Del resto, si sarebbe trattato dal loro punto di vista di ripagare con le loro tasse i debiti contratti dalle banche private con cittadini di altri Paesi che, tuttavia, non avevano subito come loro l’effetto complessivo della crisi finanziaria. Come riassunto nel comunicato stampa rilasciato dalla Corte dell’Efta, le autorità britanniche ed olandesi avevano tuttavia reagito secondo gli schemi previsti dalla propria legislazione per far rimborsare i propri cittadini fino alla soglia prevista dalla normativa attualmente vigente. In particolare, il governo britannico aveva operato in maniera particolarmente decisa e lesiva della sovranità nazionale islandese, avvalendosi della normativa anti-terrorismo al fine di congelare gli asset detenuti nel Regno Unito da Landsbanki. Per sanare la questione ci si è rivolti alla Corte dell’Efta, che proprio lunedì 28 gennaio ha emesso la sua sentenza, riconoscendo le ragioni dell’Islanda. La legislazione europea precedente la crisi, secondo la Corte, non era pensata in previsione di crisi sistemiche della natura e dell’estensione di quella registratasi in Islanda nell’autunno del 2008, e lasciava in effetti non sufficientemente specificato chi avrebbe dovuto ripianare i debiti di un intero sistema finanziario al collasso. L’Islanda aveva già provveduto a restituire gran parte di quanto dovuto secondo la legislazione pre-2009 ai cittadini britannici e olandesi, senza discriminazione rispetto a quanto fatto con i cittadini islandesi. Il risultato della contesta su Icesave pendeva fino a lunedì come una spada di Damocle sulla ripresa economica del Paese, visto che avrebbe significato un esborso ben più elevato e, soprattutto, avrebbe rappresentato un pericoloso precedente per un Paese il cui sistema bancario, nel 2008, aveva raggiunto un’esposizione record, comunemente stimata, a seconda delle fonti, tra 9 e 12 volte il Pil islandese dell’epoca. In mancanza di norme precise in tal senso, la Corte ha invece ritenuto di assolvere il governo islandese, che potrà continuare le sue politiche apertamente eterodosse, senza timore di dover imporre nuove strette fiscali per ripagare il debito contratto dalle sue banche. Come rivendica Grimsson nell’intervista rilasciata ad Al Jazeera, a seguito della crisi finanziaria il governo islandese ha operato esattamente all’inverso di quanto prescritto e portato avanti dai governi del resto d’Europa: dopo aver lasciato fallire le banche, ha introdotto controlli sui movimenti di capitale; non ha – almeno in un primo periodo – introdotto misure di austerità, intervenendo al contrario a sostegno dei cittadini lasciati senza lavoro e a rischio povertà dall’improvvisa dissoluzione dei loro risparmi. Ma soprattutto, come spiega ancora il NYT, a differenza degli Stati Uniti e dei Paesi europei - pur tra mille difficoltà - le autorità politiche e giudiziarie islandesi hanno costantemente lavorato per inchiodare alle proprie responsabilità i manager responsabili della crisi. Cosa che, continua il quotidiano statunitense, ha dato al governo sufficiente autorevolezza di fronte all’opinione pubblica per introdurre le misure necessarie a uscire anticipatamente dal programma di salvataggio del Fondo Monetario Internazionale. Lo stesso Fondo ha poi dovuto ammettere pubblicamente il successo della politica islandese – cosa di cui gli danno atto anche numerosi economisti di peso internazionale. È vero ciò che dice Seminerio nel post citato di Phastidio, che cioè non si tratti – come hanno riportato numerosi commentatori nostrani – di un “default sul debito pubblico”: ciononostante, l’Islanda ha coraggiosamente infranto la consuetudine secondo cui lo Stato interviene a impedire il fallimento delle banche, lasciandone inalterato l’assetto proprietario. I risparmiatori sono stati tutelati il giusto, ma non si è usato questo pretesto per sottrarre alla propria responsabilità i vertici e gli azionisti – che avevano del resto già goduto dei proventi a breve termine di queste strategie spericolate. Nel rivendicare questi successi, il Presidente Grimsson si lasciava andare ad altre, interessanti dichiarazioni: a suo dire, infatti, alla base della robusta ripresa islandese c’è anche l’impatto innovativo di un settore finanziario “sterilizzato”, sufficientemente piccolo non solo da non fallire, ma da non “drenare” i più brillanti laureati in informatica, ingegneria, persino fisica. Una volta lasciate fallire le banche, questi lavoratori altamente istruiti – difesi dal rischio di indigenza in virtù delle politiche fiscali e monetarie fortemente anticicliche portate avanti da Reykjavík – sono rimasti in Islanda ed hanno finito, secondo Grimsson, per ridare slancio all’economia reale. C’è da dire che – come fanno notare alcuni blogger islandesi – la repentina svolta ortodossa dell’Islanda si spiega, più che con la lungimiranza del suo ceto politico, con la cruda impossibilità di ripagare quei debiti, sommata al pungolo costituito dalle radicali proteste dei cittadini. Viene da chiedersi se la “debolezza” dell’Islanda – il suo essere cioè fuori dal riparo delle istituzioni comunitarie - non sia stata, in realtà, la sua fortuna.