La crisi dello Shipping
Relazione di Marco Bertorello al convegno Il Crack viene dal mare: sovrapproduzione e speculazione continuano a imperversare anche nel settore navale.
di Marco Bertorello
Il testo di Sergio Bologna, il crack che viene dal mare, rappresenta un importante contributo non solo per comprendere le dinamiche economiche del mondo dello shipping, ma per la traiettoria che la finanziarizzazione ha preso nel suo complesso. Innanzitutto conferma l'intreccio tra economia reale e finanziaria di questi ultimi decenni e l'impossibilità di separare i due ambiti. Implicitamente va a negare quell'approccio, d'impostazione keynesiana, che auspicherebbe un ritorno ai fondamentali dell'economia reale, cioè un sistema caratterizzato da produzione e consumo senza il prevalere della sfera finanziaria, considerata, almeno nelle forme attuali, virtuale e foriera di eccessi e degenerazioni. In realtà le cose non sono così semplici.
In questi anni si è verificato un duplice movimento: l'economia reale è andata ingolfandosi senza mantenere i livelli di sviluppo precedenti e ha dovuto far ricorso, in maniera crescente, alla finanza, fino a far parlare di un vero e proprio processo di finanziarizzazione dell'economia. Questa a sua volta oggi retroagisce sul livello reale intaccandone profilo e meccanismi di funzionamento. Il caso dello shipping è una conferma della tendenza alla complementarità tra la sfera reale e quella finanziaria dell'economia, perciò risulta difficile, per non dire impossibile, separare i due poli di un medesimo sistema di accumulazione.
La tesi di Bologna consiste nel paragonare la crisi del 2008 con il caso Lehmann Brothers, espressione del circuito immateriale e virtuale del denaro, con quella dello shipping di oggi, in cui verrebbe colpito il circuito fisico delle merci. Due fenomeni in parte differenti, ma con dinamiche paragonabili. Tutto ha inizio nel settore navale delle costruzioni. Esistono fondi finanziari che investono capitali privati con forti livelli di remunerazione nel settore, grazie anche a un regime fiscale particolarmente favorevole, soprattutto in Germania, ove i guadagni sono ottenuti grazie alla notevole capacità di vendita o noleggio delle navi. In questo settore vengono coinvolti dei panzer della finanza globale del calibro di Royal Bank of Scotland, Lloyd Bank, Commerzbank, HSH Nordbank. Cosa succede a partire dal 2012? Si afferma un eccesso di offerta nel settore, dovuto al calo dei traffici previsti in conseguenza degli effetti di lungo periodo della crisi globale e specificatamente europea. Il risultato è la caduta dei prezzi di vendita di molte navi, i quali «ormai sono scesi così in basso da sfiorare i valori delle navi in demolizione». Tale dinamica che si afferma nell'economia reale si riverbera in quella finanziaria, in quanto il crollo del valore degli asset in portafoglio dei fondi rischia di provocarne il fallimento, con il conseguente colpo al sistema bancario, che come è noto non gode di eccessiva salute.
Ma come è potuta affermassi una bolla nello shipping? Bologna ne dà una spiegazione complessa e sottile allo stesso tempo. Sottolinea, infatti, come si sia affermato un rapporto tra la nave intesa come «prodotto industriale» e la nave come «prodotto finanziario», con sullo sfondo il cosiddetto fenomeno del «gigantismo navale», cioè quella tendenza a costruire navi dalla stazza e dalla capacità di stiva sempre più consistente. Indubbiamente a monte vi è il dispiegarsi della crisi globale, che in questo settore, se non dà vita a una contrazione vera e propria (solo nel 2009 si verifica un dato negativo), non cresce come nelle attese. Ma in un'economia di mercato spesso questo è il problema, cioè un eccesso di investimenti a seguito di una fase di euforia irrazionale in un settore in espansione che lascia prevedere un periodo di crescita infinita e che spinge gli operatori verso una folle gara negli investimenti alla ricerca di profitti che si immaginano esponenziali. Tale meccanismo si può inceppare anche a seguito di una riduzione della crescita prevista e non di una effettiva contrazione.
Da qui il passaggio dall'euforia al panico, con il crollo di valori, investimenti, profitti. Alla parabola mondiale si aggiungono condizioni specifiche del settore. Ma quello che si domanda Bologna è se esiste una componente attiva nella responsabilità del settore dello shipping. Si è andato affermando un calo negli andamenti della movimentazione delle merci, anche in un settore particolarmente dinamico come questo per la globalizzazione, di conseguenza un calo dei noli, un crescente livello di competizione tra gli operatori.
Inizialmente la via maestra è stata la ricerca di una costante riduzione dei costi, a partire da quelli per il carburante con una decisa riduzione della velocità di crociera (che nelle navi giganti di ultima generazione significa paradossalmente anche la rovina di motori nati per velocità ben superiori), riduzione dei servizi, e soprattutto crescita della stazza delle navi. Per un tale processo, incentrato sulla riduzione dei costi e dunque sul gigantismo navale, sono necessarie cifre considerevoli, quindi un settore produttivo ha bisogno di quello creditizio per investire. Qui interviene il rapporto tra creditore e debitore che tanta parte ricopre nelle economie contemporanee. Per ottenere il supporto del sistema bancario le imprese sono costrette a far valere alcuni fattori. Bologna parla de «la quota di mercato, il valore degli asset (naviglio di proprietà), le previsioni di crescita. La quota di mercato come argomento principe del rating bancario, spiega la folle corsa ad acquisire volumi ed a mettere in servizio capacità, offerta di stiva, a costo di praticare tariffe da dumping. La valorizzazione degli asset spiega la folle corsa all'acquisto di navi. Probabilmente si accorgono ora, di fronte all'evidenza della recessione mondiale, che questi asset possono svalutarsi rapidamente, come è capitato alle proprietà immobiliari». Ecco nuovamente il parallelo con gli Usa, e con le dinamiche di mercato che repentinamente, a fronte di un eccesso di offerta, intervengono con una progressiva svalutazione dell'offerta stessa, causando a catena effetti negativi, potenzialmente fino a una recessione. Dentro questa dinamica si comprende il complesso processo di intersecazione tra economia reale e finanziaria. Qui dentro si afferma quello che potrebbe sembrare un ossimoro: la nave come prodotto finanziario. La competizione esasperata conduce a una guerra finanziaria tra colossi dello shipping nella quale per sopravvivere è necessario ricorrere al sistema creditizio e per far fronte alle richieste di quest'ultimo bisogna presentare una situazione patrimoniale che faccia da garante. L'acquisto di navi nuove e tecnologicamente sofisticate rende una compagnia di navigazione più forte agli occhi delle banche. Questi sono i meccanismi tipici dell'economia del debito a cui ci siamo assuefatti in tanti comparti. Le economie di scala riducono i costi unitari, su una nave gigante un container costa meno, se la nave resta vuota in un primo momento rimane un problema del segmento operativo. Ma il problema da finanziario torna a essere dell'economia reale nel momento in cui interviene il tasso di riempimento di una stiva, cioè la capacità di non far navigare un'imbarcazione vuota o semivuota.
Una nave da 10 mila Teu carica all'80% ha un costo unitario inferiore a una da 6 mila, ma se il tasso di riempimento della prima scende a meno del 60% il vantaggio viene meno, trasformando un punto di forza, la grandezza, in una debolezza. Questa corsa al gigantismo navale si è affermata anche perché le imprese dello shipping risultavano interessanti per il sistema bancario, in quanto rappresentano un settore a elevata liquidità. Tale processo, però, sta conducendo a una bolla dovuta a una sovracapacità produttiva, basti pensare che nel solo 2012 sono entrate in servizio 59 navi da 10 mila Teu e contemporaneamente la principale società del segmento, Maersk, annuncia che nei prossimi 5 anni i suoi capitali dedicati allo shipping si ridurranno dal 30 al 25%. Sergio Bologna richiama, poi, lo studio di Alix Partner del 2011 che parla di un indebitamento del settore, indebitamento raddoppiato dal 2007, che raggiunge i 90 miliardi di dollari, tanto che circa la metà delle compagnie analizzate non è in grado neppure di pagare gli interessi sul debito. Queste cifre descrivono una pericolosa tendenza, comune a tanti altri comparti, ma sono tanto più gravi perché coinvolgono un settore strategico in tempi di globalizzazione e dunque troppo spesso considerato al riparo dalle turbolenze della crisi mondiale. Forse non vi sarà un vero e proprio crack, almeno per ora, ma solo perché riguarderebbe società considerate "troppo grandi per fallire", e in questi tempi di instabilità le finanze pubbliche sono pronte, come il caso Monte dei Paschi dimostra, a tappare le falle.
Ma per quanto si potrà andare avanti così? Per quanto sarà possibile stampare moneta per tamponare le voragini che si creano in quello che Luciano Gallino definisce finanzcapitalismo?
Infine una riflessione sul nesso di questa parabola e le politiche pubbliche delle infrastrutture.
Bologna sottolinea come si sia affermata una «ipnotica fiducia» nel gigantismo navale e di conseguenza come le autorità pubbliche abbiano inseguito indiscriminatamente questa fascinazione iniziando a costruire banchine sempre più lunghe e fondali sempre più profondi per accogliere queste megacarrier. Per giunta in una logica territoriale di micro-competizione, dando vita a un sovra-investimento in opere portuali, con il rischio di avere porti tra 10/12 anni che non corrispondano al panorama post-crisi. A un panorama che prevedibilmente sarà caratterizzato da modesti tassi di crescita, risparmio, sobrietà nei consumi. D'altronde bisognerebbe interrogarsi anche sulla capacità di trascinare ricchezza dei porti e delle infrastrutture retrostanti. Uno studio di Enrico Musso e Hilda Ghiara (Ancorare i porti al territorio, Mc Graw-Hill) già nel 2007, cioè prima della crisi, sosteneva come «gli impatti economici localizzati (occupazione e retribuzione dei fattori produttivi) sono in calo, almeno in relazione al volume di traffico, mentre le esternalità negative sono fortemente crescenti e rimangono concentrate nel territorio che ospita il porto».
Forse sarebbe il momento di rivedere antiche e consolidate certezze a fronte di un panorama in costante mutazione.
di Marco Bertorello
Il testo di Sergio Bologna, il crack che viene dal mare, rappresenta un importante contributo non solo per comprendere le dinamiche economiche del mondo dello shipping, ma per la traiettoria che la finanziarizzazione ha preso nel suo complesso. Innanzitutto conferma l'intreccio tra economia reale e finanziaria di questi ultimi decenni e l'impossibilità di separare i due ambiti. Implicitamente va a negare quell'approccio, d'impostazione keynesiana, che auspicherebbe un ritorno ai fondamentali dell'economia reale, cioè un sistema caratterizzato da produzione e consumo senza il prevalere della sfera finanziaria, considerata, almeno nelle forme attuali, virtuale e foriera di eccessi e degenerazioni. In realtà le cose non sono così semplici.
In questi anni si è verificato un duplice movimento: l'economia reale è andata ingolfandosi senza mantenere i livelli di sviluppo precedenti e ha dovuto far ricorso, in maniera crescente, alla finanza, fino a far parlare di un vero e proprio processo di finanziarizzazione dell'economia. Questa a sua volta oggi retroagisce sul livello reale intaccandone profilo e meccanismi di funzionamento. Il caso dello shipping è una conferma della tendenza alla complementarità tra la sfera reale e quella finanziaria dell'economia, perciò risulta difficile, per non dire impossibile, separare i due poli di un medesimo sistema di accumulazione.
La tesi di Bologna consiste nel paragonare la crisi del 2008 con il caso Lehmann Brothers, espressione del circuito immateriale e virtuale del denaro, con quella dello shipping di oggi, in cui verrebbe colpito il circuito fisico delle merci. Due fenomeni in parte differenti, ma con dinamiche paragonabili. Tutto ha inizio nel settore navale delle costruzioni. Esistono fondi finanziari che investono capitali privati con forti livelli di remunerazione nel settore, grazie anche a un regime fiscale particolarmente favorevole, soprattutto in Germania, ove i guadagni sono ottenuti grazie alla notevole capacità di vendita o noleggio delle navi. In questo settore vengono coinvolti dei panzer della finanza globale del calibro di Royal Bank of Scotland, Lloyd Bank, Commerzbank, HSH Nordbank. Cosa succede a partire dal 2012? Si afferma un eccesso di offerta nel settore, dovuto al calo dei traffici previsti in conseguenza degli effetti di lungo periodo della crisi globale e specificatamente europea. Il risultato è la caduta dei prezzi di vendita di molte navi, i quali «ormai sono scesi così in basso da sfiorare i valori delle navi in demolizione». Tale dinamica che si afferma nell'economia reale si riverbera in quella finanziaria, in quanto il crollo del valore degli asset in portafoglio dei fondi rischia di provocarne il fallimento, con il conseguente colpo al sistema bancario, che come è noto non gode di eccessiva salute.
Ma come è potuta affermassi una bolla nello shipping? Bologna ne dà una spiegazione complessa e sottile allo stesso tempo. Sottolinea, infatti, come si sia affermato un rapporto tra la nave intesa come «prodotto industriale» e la nave come «prodotto finanziario», con sullo sfondo il cosiddetto fenomeno del «gigantismo navale», cioè quella tendenza a costruire navi dalla stazza e dalla capacità di stiva sempre più consistente. Indubbiamente a monte vi è il dispiegarsi della crisi globale, che in questo settore, se non dà vita a una contrazione vera e propria (solo nel 2009 si verifica un dato negativo), non cresce come nelle attese. Ma in un'economia di mercato spesso questo è il problema, cioè un eccesso di investimenti a seguito di una fase di euforia irrazionale in un settore in espansione che lascia prevedere un periodo di crescita infinita e che spinge gli operatori verso una folle gara negli investimenti alla ricerca di profitti che si immaginano esponenziali. Tale meccanismo si può inceppare anche a seguito di una riduzione della crescita prevista e non di una effettiva contrazione.
Da qui il passaggio dall'euforia al panico, con il crollo di valori, investimenti, profitti. Alla parabola mondiale si aggiungono condizioni specifiche del settore. Ma quello che si domanda Bologna è se esiste una componente attiva nella responsabilità del settore dello shipping. Si è andato affermando un calo negli andamenti della movimentazione delle merci, anche in un settore particolarmente dinamico come questo per la globalizzazione, di conseguenza un calo dei noli, un crescente livello di competizione tra gli operatori.
Inizialmente la via maestra è stata la ricerca di una costante riduzione dei costi, a partire da quelli per il carburante con una decisa riduzione della velocità di crociera (che nelle navi giganti di ultima generazione significa paradossalmente anche la rovina di motori nati per velocità ben superiori), riduzione dei servizi, e soprattutto crescita della stazza delle navi. Per un tale processo, incentrato sulla riduzione dei costi e dunque sul gigantismo navale, sono necessarie cifre considerevoli, quindi un settore produttivo ha bisogno di quello creditizio per investire. Qui interviene il rapporto tra creditore e debitore che tanta parte ricopre nelle economie contemporanee. Per ottenere il supporto del sistema bancario le imprese sono costrette a far valere alcuni fattori. Bologna parla de «la quota di mercato, il valore degli asset (naviglio di proprietà), le previsioni di crescita. La quota di mercato come argomento principe del rating bancario, spiega la folle corsa ad acquisire volumi ed a mettere in servizio capacità, offerta di stiva, a costo di praticare tariffe da dumping. La valorizzazione degli asset spiega la folle corsa all'acquisto di navi. Probabilmente si accorgono ora, di fronte all'evidenza della recessione mondiale, che questi asset possono svalutarsi rapidamente, come è capitato alle proprietà immobiliari». Ecco nuovamente il parallelo con gli Usa, e con le dinamiche di mercato che repentinamente, a fronte di un eccesso di offerta, intervengono con una progressiva svalutazione dell'offerta stessa, causando a catena effetti negativi, potenzialmente fino a una recessione. Dentro questa dinamica si comprende il complesso processo di intersecazione tra economia reale e finanziaria. Qui dentro si afferma quello che potrebbe sembrare un ossimoro: la nave come prodotto finanziario. La competizione esasperata conduce a una guerra finanziaria tra colossi dello shipping nella quale per sopravvivere è necessario ricorrere al sistema creditizio e per far fronte alle richieste di quest'ultimo bisogna presentare una situazione patrimoniale che faccia da garante. L'acquisto di navi nuove e tecnologicamente sofisticate rende una compagnia di navigazione più forte agli occhi delle banche. Questi sono i meccanismi tipici dell'economia del debito a cui ci siamo assuefatti in tanti comparti. Le economie di scala riducono i costi unitari, su una nave gigante un container costa meno, se la nave resta vuota in un primo momento rimane un problema del segmento operativo. Ma il problema da finanziario torna a essere dell'economia reale nel momento in cui interviene il tasso di riempimento di una stiva, cioè la capacità di non far navigare un'imbarcazione vuota o semivuota.
Una nave da 10 mila Teu carica all'80% ha un costo unitario inferiore a una da 6 mila, ma se il tasso di riempimento della prima scende a meno del 60% il vantaggio viene meno, trasformando un punto di forza, la grandezza, in una debolezza. Questa corsa al gigantismo navale si è affermata anche perché le imprese dello shipping risultavano interessanti per il sistema bancario, in quanto rappresentano un settore a elevata liquidità. Tale processo, però, sta conducendo a una bolla dovuta a una sovracapacità produttiva, basti pensare che nel solo 2012 sono entrate in servizio 59 navi da 10 mila Teu e contemporaneamente la principale società del segmento, Maersk, annuncia che nei prossimi 5 anni i suoi capitali dedicati allo shipping si ridurranno dal 30 al 25%. Sergio Bologna richiama, poi, lo studio di Alix Partner del 2011 che parla di un indebitamento del settore, indebitamento raddoppiato dal 2007, che raggiunge i 90 miliardi di dollari, tanto che circa la metà delle compagnie analizzate non è in grado neppure di pagare gli interessi sul debito. Queste cifre descrivono una pericolosa tendenza, comune a tanti altri comparti, ma sono tanto più gravi perché coinvolgono un settore strategico in tempi di globalizzazione e dunque troppo spesso considerato al riparo dalle turbolenze della crisi mondiale. Forse non vi sarà un vero e proprio crack, almeno per ora, ma solo perché riguarderebbe società considerate "troppo grandi per fallire", e in questi tempi di instabilità le finanze pubbliche sono pronte, come il caso Monte dei Paschi dimostra, a tappare le falle.
Ma per quanto si potrà andare avanti così? Per quanto sarà possibile stampare moneta per tamponare le voragini che si creano in quello che Luciano Gallino definisce finanzcapitalismo?
Infine una riflessione sul nesso di questa parabola e le politiche pubbliche delle infrastrutture.
Bologna sottolinea come si sia affermata una «ipnotica fiducia» nel gigantismo navale e di conseguenza come le autorità pubbliche abbiano inseguito indiscriminatamente questa fascinazione iniziando a costruire banchine sempre più lunghe e fondali sempre più profondi per accogliere queste megacarrier. Per giunta in una logica territoriale di micro-competizione, dando vita a un sovra-investimento in opere portuali, con il rischio di avere porti tra 10/12 anni che non corrispondano al panorama post-crisi. A un panorama che prevedibilmente sarà caratterizzato da modesti tassi di crescita, risparmio, sobrietà nei consumi. D'altronde bisognerebbe interrogarsi anche sulla capacità di trascinare ricchezza dei porti e delle infrastrutture retrostanti. Uno studio di Enrico Musso e Hilda Ghiara (Ancorare i porti al territorio, Mc Graw-Hill) già nel 2007, cioè prima della crisi, sosteneva come «gli impatti economici localizzati (occupazione e retribuzione dei fattori produttivi) sono in calo, almeno in relazione al volume di traffico, mentre le esternalità negative sono fortemente crescenti e rimangono concentrate nel territorio che ospita il porto».
Forse sarebbe il momento di rivedere antiche e consolidate certezze a fronte di un panorama in costante mutazione.